Le eroine bovolonesi della Prima Guerra Mondiale
C’è chi sostiene, e personalmente sono d’accordo, che se gli uomini furono in prima linea durante la Grande Guerra, non meno secondario in quel periodo fu il ruolo delle donne e il prezzo che esse pagarono. Bovolone ebbe le sue eroine che si sacrificarono su due fronti: quello del lavoro e quello degli aiuti umanitari. Con grande coraggio esse diedero il meglio di sé nelle mansioni un tempo riservate agli uomini. Si dedicarono poi al sostegno dei combattenti, dei prigionieri e dei feriti ricoverati all’ospedale militare di Bovolone. Svolsero tutto ciò soffrendo ansia e angoscia per la propria sorte e per quella dei propri cari, lontani in zona di guerra.
La figura femminile tra i feriti o in comunicazione con i soldati in trincea conferiva alla tragica dimensione della guerra una nota di grazia e di dolcezza non più conosciuta dai giovanissimi ragazzi e dagli uomini risucchiati nell’abisso in una feroce guerra di sterminio e di orrore.
Soccorsi per le famiglie povere e per le vittime della guerra
La 1^ primavera di guerra del 1915, ardente come un gran fuoco dimenticato acceso, vide tra i soldati partiti da Bovolone i primi feriti e il primo caduto in battaglia. Dopo appena 16 giorni di conflitto, mentre fiorivano i papaveri rossi nei campi di grano che cominciava a imbiondire, morì il soldato Giorgio Conte, un contadino di 21 anni abitante in via Campagne, il quale cadde sul Carso durante un assalto alla baionetta per conquistare il Colle S. Elia nei pressi di S. Pietro dell’Isonzo. In quel tentativo, risultato poi inutile, morirono in pochi minuti 400 soldati e 14 ufficiali, falciati dalle mitragliatrici e dai cannoni. Era il 9 giugno 1915; il paese rimase sgomento, ma era solo l’inizio di una lunga serie di tragedie.
Prevedendo una situazione difficile, il Consiglio comunale e i privati cittadini di Bovolone, promossero iniziative assistenziali per soccorrere le famiglie ridotte in povertà morale ed economica. Fu così che alla fine di giugno 1915 sorsero il Comitato di assistenza civile e il Comitato femminile di beneficenza.
Dalle trincee viene una poesia dedicata alle donne di Bovolone
L’autunno e l’inverno del primo anno di guerra si avvicinavano e scarseggiava il vestiario invernale per i soldati. Il distretto provinciale, tramite il conte Orti-Manara, assegnò alle donne di Bovolone la confezione di 50 pantaloni e 50 gilet di panno per un totale di 150 lire. Ma quello che il governo del regno faceva era inadeguato rispetto alle effettive necessità. Allora il parroco di Bovolone don Timoteo Lugoboni si rivolse alle donne del paese per una raccolta di indumenti pesanti che si svolse domenica 26 settembre 1915. Il vestiario accumulato fu trasportato a Verona dal carrettiere Passaia Arcadio. Sempre nell’autunno del 1915, il Comitato femminile di beneficenza (presieduto da Anna Pesenti Cappa, Elena Terzi e Silvia Zanini) raccolse offerte e preparò corredi di lana da inviare sulle montagne. Il sindaco Remo Gagliardi, il giorno 8 settembre 1915, fece distribuire in tutte le case un foglio con il quale invitava la popolazione ad aderire all’iniziativa del Comitato femminile. La risposta fu molto generosa e dal paese partirono numerosi pacchi destinati soprattutto ai soldati poveri.
I commilitoni dei nostri paesani si stupirono di tanta organizzazione e buon cuore. L’alpino Cationi di Verona scrisse al Comitato femminile belle parole di ringraziamento per conto di un soldato analfabeta di Bovolone che aveva ricevuto i preziosi e caldi indumenti. Nella busta c’era questa poesia.
Graziose e zentili signorine,
care e amabili contessine
co’ le vostre calde robe de lana
par noialtri l’è stà ‘na vera mana:
co sto rigido e fredo inverno.
Anche se qua ghè l’inferno
no fa gnente ne iuta el Padre Eterno.
Co la speranza che la guera finirà
insieme a sta vita disgrassià,
signorine ve ringrassiemo col core
ma qua ogni tanto se more.
Maledeta ‘sta guera e ci l’ha inventà,
col canon se dovaria sparargìhe adosso
e po’ butarli tuti zo nel foso.
Il Cationi (il cognome è forse inventato per sfuggire alla censura) riuscì ad infilare di nascosto la poesia nella lettera. Ma un ufficiale venne a saperlo e, ottenuta una copia del componimento, rimproverò l’alpino per i versi che maledivano la guerra. Poi scrisse al nostro sindaco affinchè recuperasse la poesia e la distruggesse, cosa che egli per fortuna non fece. Gli ufficiali punivano severamente chi parlava male della guerra (i cosiddetti disfattisti). Attraverso le loro spie venivano a sapere tutto ciò che si diceva in trincea e nelle baracche. Un semplice e ingenuo sfogo affidato ad una cartolina, poteva causare guai seri.
Altre confezioni (131 ventriere, 444 guanti di lana ed indumenti vari) furono commissionate il 25 marzo 1916 per un totale di 3.586.90 lire pagate alla Banca d’Italia. L’anno successivo furono preparate 2.293 ventriere con 320 chilogrammi di lana. Questo lavoro fu svolto da circa 300 donne.
Uffici informazioni e mensa per i poveri: due iniziative gestite dalle donne
Ci furono altre due iniziative nelle quali prevalse l’impegno volontario delle adolescenti, delle ragazze e delle donne del paese: l’ufficio per la corrispondenza e la mensa per i poveri.
Il sindaco Remo Gagliardi aveva un gran lavoro nello scrivere domande per ottenere licenze (quasi mai accordate nemmeno per la morte di un familiare), nel fare da tramite tra le famiglie e i comandi militari e aggiornare l’elenco delle famiglie bisognose. Ma non bastava. Entrò in azione allora anche la parrocchia con l’apertura di un ufficio per aiutare gli analfabeti a scrivere e a leggere le corrispondenze e soccorrere la povera gente con il conforto materiale e spirituale. L’ufficio era aperto tutti i giorni dalle 9 alle 11 e dalle 15 alle 17.
Per assicurare ai poveri un vitto modesto ma nutriente, sano e a poco prezzo, la Società operaia di mutuo soccorso presieduta da Zago Vittorio organizzò con l’aiuto delle donne una mensa a partire dal 20 dicembre 1915
Intanto dal fronte giungevano notizie inquietanti e drammatiche di migliaia di soldati dispersi e di altrettanti rimasti insepolti sui campi di battaglia. Grave diventò l’angoscia delle famiglie che non ricevevano più notizie dei loro cari. Anche di coloro che venivano fatti prigionieri non si sapeva nulla se non dopo tanto tempo. Le condizioni nei campi di prigionia erano pessime: mancavano cibo, acqua, coperte e vestiti.
Maria Bellinato, presidente del Comitato femminile di beneficenza, istituì un ufficio per la ricerca dei soldati dispersi e dei prigionieri con sede in via Carlo Alberto n. 81, aperto ogni giorno dalle 10 alle 12 e dalle 14 alle 16 e organizzò sottoscrizioni in denaro per confezionare pacchi da spedire ai prigionieri. Il Comitato femminile chiese al sindaco un contributo finanziario per integrare le offerte e domandò anche una stufa a legna per il riscaldamento invernale del locale e la prestazione di uno stradino per il trasporto dei pacchi dall’ufficio alla posta e dalla posta alla stazione ferroviaria. Il 10 gennaio 1918 le richieste furono accolte dalla Giunta comunale la quale deliberò anche un contributo di £. 100.
Il 24 luglio 1919 tra le molte donne volontarie di Bovolone che si prodigarono per tutto il periodo della guerra in questi servizi e, come vedremo più avanti, nell’assistenza dei feriti ricoverati all’ospedale militare di Bovolone, sette in particolare ricevettero dall’Ufficio notizie militari di Bologna una medaglia di bronzo per ciascuna. I loro nomi: Bellinato Maria, Zanini Isa, Segala Maria, Morelato Luisa, Modenese Elvira, Ghiraldini Nella e Mantovani Ida (tutte appartenenti al Comitato femminile di beneficenza).
Donne e bambini al lavoro nei campi e nel magazzino del Genio militare
La chiamata alle armi della maggior parte degli agricoltori e dei braccianti costrinse le donne ed i bambini a sostituire gli uomini nei lavori pesanti dei campi quali l’aratura, la semina, la mietitura e la trebbiatura. Le classi della scuola elementare di Bovolone durante il periodo autunnale, primaverile ed estivo (le lezioni terminavano con gli esami a fine luglio) erano quasi deserte. L’orario, spezzato in due parti (la mattina dalle 8.30 alle 11.30 e il pomeriggio dalle 15 alle 17) costringeva gli scolari che abitavano nelle località lontane a percorrere molti chilometri a piedi quattro volte al giorno. Ma la causa maggiore della scarsa frequenza era dovuta al fatto che anche i bambini dovevano lavorare i campi insieme alle donne. Per facilitare questo compito, per l’anno scolastico 1917/1918 gli insegnanti chiesero ed ottennero dal Comune un orario unico mattutino.
All’indomani della disfatta di Caporetto furono allestiti a Bovolone, in via Baldoni, due magazzini del Genio militare. Al loro interno numerosi gruppi di giovanissime tra gli 11 e i 13 anni, con le madri e le sorelle maggiori preparavano spolette di filo spinato, assemblavano graticci e mascheramenti, smistavano materiale bellico e di approvvigionamento. Sempre agli ordini della milizia territoriale, lavoravano anche all’esterno per la manutenzione delle strade, trasportando ghiaia e pietrisco in modo da rendere le vie percorribili dai pezzi dell’artiglieria e dai mezzi di trasporto per il rifornimento delle truppe. Il 26 maggio 1918 i conduttori di fondi agricoli, trovandosi a corto di mano d’opera e in vista della mondatura del riso, della mietitura e trebbiatura del frumento, si appellarono alle autorità militari competenti per ottenere personale femminile tra le donne già occupate nei magazzini del Genio militare di Bovolone.
Biscotti e confetti avvelenati
Con una lettera prot. n. 459 del 29 aprile 1916, il sindaco pregava il parroco don Lugoboni di avvertire i cittadini, mediante avviso alle Messe domenicali, che in paese erano stati sparsi per le strade confetti e biscotti con sostanze nocive, invitando ad astenersi dal mangiare tali dolci e di portarli in Comune per le analisi. Qualche bambino fu ricoverato all’ospedale e salvato in extremis con una lavanda gastrica. Correva voce che fossero stati gli aerei austriaci a disseminare pacchettini con alimenti avvelenati. Il sindaco mandò una squadra di donne volontarie a bonificare le strade. Intanto la gente imprecava contro la guerra che aveva portato solo morte, ferimenti, povertà, disperazione e adesso anche perfide esche avvelenate.
L’ ospedale militare era fornito di apparecchio per Raggi X, ragazze e donne volontarie come infermiere e assistenti dei feriti
La disastrosa sconfitta dell’esercito italiano di fine ottobre 1917, la ritirata dei soldati e le migliaia di feriti che ogni giorno affluivano dai territori abbandonati fecero di tutta la pianura veneta occidentale un retrovia di guerra. Prima ancora, dall’inizio della guerra, un ospedale da campo, contrassegnato con il numero 81, fu allestito a Bovolone. Era un ospedale di tappa che accoglieva i feriti di passaggio, destinati ad essere ricoverati definitivamente in altre cliniche di varie città italiane. Fu così che in paese si conobbero da vicino le funeste conseguenze della guerra: gli orribili squarci al viso, all’addome, al torace e le mutilazioni degli arti. I feriti sostavano per qualche giorno per le medicazioni o per un periodo più lungo in caso di aggravamento. Molti morirono a Bovolone.
Nell’estate del 1917, su richiesta del colonnello Callegari, direttore sanitario militare delle forze armate dei contingenti Monte Grappa e Piave e su concessione del sindaco di Bovolone (documento del 29 novembre 1917, n. di prot. 1538) l’ospedale di tappa si trasformò in ospedale fisso.
Per assistere le decine e decine di feriti occorreva personale che affiancasse le crocerossine. Si offrirono anche per questo servizio le donne del Comitato femminile di beneficenza. C’erano anche alcuni sacerdoti, a loro volta feriti in combattimento (i preti non erano esenti dal servizio militare) e che, guariti, assistevano i ricoverati. Celebravano la Messa nella chiesa parrocchiale alle 5,30 e poi si dedicavano alla cura spirituale dei malati e al conforto dei moribondi.
I medici avevano a disposizione l’apparecchiatura per i raggi X. La sala per le radiografie si trovava nella casa dell’ing. Benetti Artemio, in via Carlo Alberto.
Noi stiamo inseguendo in queste pagine il ruolo delle donne di Bovolone durante la Grande Guerra. Non posso tacere però l’opera di un uomo, il dottor Angelo Cappa, medico condotto, chirurgo e direttore dell’ospedale S. Biagio che si sacrificò giorno e notte per curare gli sfollati e per aiutare i sanitari dell’ospedale militare. A Verona, dove svolse il servizio militare nei primi mesi della guerra, aveva salvato dall’amputazione il soldato Spartaco Frapporti. Il padre, Italo Frapporti, domenica 31 dicembre 1916, pubblicò un articolo sul giornale L’ Adige per ringraziare il capitano medico Angelo Cappa il quale, con la sua paziente e competente opera aveva guarito il figlio.
Congedato nel 1916, il dottor Cappa svolse il suo lavoro a Bovolone come una missione umanitaria spendendo le proprie forze ben oltre il limite che la professione gli richiedeva e fu sempre sostenuto nelle opere di bene dalla moglie Anna Pesenti. Più tardi fu un oppositore del partito fascista e, dopo la liberazione del 25 aprile 1945, fu nominato sindaco a furor di popolo.
Vista tutta la documentazione che ho raccolto a loro favore posso affermare con forza che il dottor Cappa e la moglie Anna furono i veri eroi del paese della prima metà del Novecento e meriterebbero davvero un monumento.
Tornando alle donne di Bovolone, dobbiamo parlare adesso delle sorelle Scipioni. All’inizio, l’ospedale militare risiedeva in alcuni locali affittati in via Carlo Alberto. Dopo la rotta di Caporetto, quando i feriti arrivavano a decine, il Ministero della guerra requisì le scuole femminili ed altri locali di case private. Le sorelle Scipioni Adelina, Fiordalice Gemma e Calpurnia convinsero il padre Giona Scipioni (1853-1929) e la madre Zanella Giuseppina a concedere all’ospedale parte del palazzo vescovile di loro proprietà. Furono così offerte alcune stanze al piano terra e utilizzato il cortile interno nel quale i militari piantarono una grande tenda con posti letto. Infine, dal 17 gennaio al 27 giugno 1918, l’amministrazione sanitaria militare ebbe in affitto per £. 293,30 i porticati e i magazzini dell’edificio antico nei quali fu allestito un deposito di materiale sanitario.
Il duro lavoro delle donne nelle risaie
A Bovolone c’erano importanti aziende agricole che producevano riso e che durante la guerra rimasero praticamente senza manodopera. Le donne, che prima di quel funesto periodo si dedicavano solo alla mondatura, furono chiamate a compiere tutti i lavori, la concimatura, l’aratura, la semina, la mondatura, la mietitura, la battitura. In loro aiuto c’erano pochi uomini non impegnati al fronte perchè già avanti nell’età. Ecco il numero delle lavoratrici: il 7 giugno 1915 alla risaia di Schiavoni Felice, in località Bosco Spin erano 41; il 29 maggio nella proprietà di Gagliardi Romolo, al Boschetto, (affittata a Torresani Agostino) erano 20; il 12 giugno nelle risaie del dott. Giuseppe Rossi, a San Pierin, (affittate a Fiorio Guido) erano 92; in quella di Fiorini Cesare alla Menghera erano 49. L’orario della giornata: dalle 4.30 alle 7.30 lavoro. Dalle 7.30 alle 9 riposo. Dalle 9 alle 12.00 lavoro. Totale 6 ore di lavoro pagate a 20 centesimi l’ora. Il pomeriggio le donne faticavano a casa loro.
Grazie a voi, donne di Bovolone
Grazie a voi donne di Bovolone per il prezioso tributo dato al paese; grazie per la silenziosa ma importante opera di bene a favore dei poveri, degli orfani, delle vedove; grazie per aver creduto nei valori della vita nonostante le gravi difficoltà che avete dovuto affrontare e di averli tramandati a noi.
Piergiorgio De Guidi