Le radici dei tempi moderni

Il 5 agosto 1981 è il simbolo di emancipazione e giustizia per le donne italiane. Sì, perché quel giorno soprattutto grazie al coraggio di Franca Viola, siciliana, che aveva rifiutato, dopo un rapimento culminato in violenza sessuale – atto appositamente commesso – per far si che, grazie alla legge, subentrasse il matrimonio riparatore, per “salvare” sposando, la donna dal disonore e dallo stigma sociale di “donna svergognata”.

Grazie alla denuncia della giovane e della sua famiglia che aveva rifiutato di piegarsi a questa consuetudine dell’Italia degli anni 60’, il suo aguzzino venne così arrestato, aprendo (non con poche intimidazioni) le porte alla legge, finalmente libera dalla condizione di sistematica inferiorità femminile. Si modificava l’art. 578 del Codice penale Rocco – risalente al 1930 ed emanato dal Governo Mussolini, tutt’ora in vigore – e la causa dell’onore veniva così cancellata da tutti i reati che prima la prevedevano; “abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore” il 5 agosto 1981, ben 16 anni dopo il fatto, diventò legge. Decedeva tutto insieme un sistema di abominevole soggiogazione normata per legge. Il delitto d’onore rappresentava né più né meno che l’abdicazione dell’autorità statuale di fronte a una giustizia patriarcale. Si prevedeva uno sconto di pena da 21 a 3-7 anni se “nell’impeto d’ira determinato dall’offesa all’onore suo o della sua famiglia”.

Se guardiamo il rovescio della medaglia: una donna ‘omicida per causa d’onore’ veniva considerata una pericolosa sanguinaria. Con il suo gesto negava la natura angelica e materna: un’etichetta stereotipata che serviva a strumentalizzare supposte virtù a danno delle donne stesse. Alle donne era attribuito «un vincolo di destinazione sessuale estraneo ai maschi» ma anche una concezione sessuale ancora frutto di un archetipo che considerava illegittimo ogni rapporto consumato al di fuori del matrimonio. Questo rifletteva una visione distorta dell’onore, legata al mantenimento del potere maschile. Sì, era in atto un vero e proprio sistema repressivo dell’attività̀ e della libertà sessuale femminile, che si ripercuote oggi, nella nostra società come un inesorabile flagello arrivato intatto a noi. Storicamente non è mai servita la repressione come strumento di controllo. Non ha mai funzionato né con la religione, né con i regimi di varia natura e orientamento. Si sono sempre ribellati, i popoli, oppressi (noi Italiani compresi, con il coraggio della resistenza) perché con la forza non si ottiene niente, se non turpe obbedienza. I dati di oggi non fanno ben sperare in una fine dell’immortale ingiustizia dettata dalla casualità di nascere di un sesso anziché quello opposto.

Sebbene il delitto d’onore sia stato formalmente abolito con la legge del 5 agosto 1981, il suo spirito continua a manifestarsi sotto forma di violenza di genere. Oggi, il fenomeno del femminicidio, che vede donne uccise da uomini spesso legati a loro da relazioni intime, è figlio di quella stessa mentalità autoritaria che giustificava la violenza come una questione d’onore. I dati attuali sui femminicidi confermano che la violenza di genere rimane una piaga sociale profondamente radicata. Secondo dati ISTAT riferiti al periodo 2010-2015, l’85% degli omicidi di donne in Italia possono essere classificati come femminicidi, ovvero omicidi perpetrati da uomini con i quali le vittime avevano una relazione affettiva o familiare. In un totale complessivo di 417 sentenze esaminate, 355 riguardavano uomini che avevano una relazione intima con la donna uccisa (ISTAT, Rapporto sulla violenza di genere 2016). Sono dati sconcertanti, non passa un mese intero senza vittime, indicativamente da quando si raccolgono i dati del “nuovo” fenomeno. Se portiamo alla memoria anche il triste fatto che fino al 1996, anche uno stupro ledeva l’onore della famiglia. Fu solo in quell’anno, infatti, che la violenza sessuale diventò un delitto contro la persona e non più contro l’ordine della famiglia, la morale insomma.

Già nel 2004, l’antropologa messicana Marcela Lagarde ha introdotto il concetto di “femminicidio” per evidenziare la grave situazione delle donne a Ciudad Juárez, in Messico, definendo il femminicidio come la forma estrema di violenza di genere, causata dalla violazione dei diritti umani delle donne in ambiti pubblici e privati. Questa violenza si manifesta in vari modi, come maltrattamenti fisici e psicologici, e viene aggravata dall’impunità e dal disinteresse istituzionale, che mettono le donne in situazioni di rischio fino alla loro morte o sofferenza evitabile. La società sembra perfettamente funzionante fino all’incalzare dei titoli di giornale: “stupro di gruppo a Palermo”, “donna uccisa a fucilate dal compagno ventiseienne”, “uccide la moglie e si toglie la vita”. Questa consuetudine di considerare, in questo senso, il femminicidio, individua una responsabilità sociale nel persistere ancora oggi, di un modello socioculturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, l’estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere. La consapevolezza sociale, in particolare da parte delle donne, è cruciale per contrastare il fenomeno della violenza di genere.

L’educazione delle nuove generazioni deve partire dalle madri, che con coraggio, devono estirpare ogni residuo di oppressione dalla loro cultura e rivendicare il diritto di decidere liberamente delle proprie vite. Questo significa affrancarsi dal potere e dal controllo esercitato dai padri, dai mariti o dai compagni, e rifiutare dinamiche che perpetuano la subordinazione e la disuguaglianza. Solo attraverso questo percorso di affermazione personale e collettivo, potrà essere infranto il ciclo di violenza di genere che ha radici profonde nella nostra società ma sembra che noi, non ne abbiamo memoria.

 

Sara Schiavo

La Rana News
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