Giornata della Memoria

Giornata della Memoria

Grande interesse e commozione sui volti dei partecipanti, in gran parte ragazzi della scuola media di Bovolone e Villafontana, sabato 25 gennaio presso il Teatro Parrocchiale di Bovolone, a seguito dell’incontro organizzato, in occasione della Giornata della Memoria, dall’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra sezione di Verona in collaborazione con il Comune di Bovolone e con gli studenti dell’Istituto Franco Cappa di Bovolone.

L’evento è stato uno di quelli organizzati a Bovolone in occasione della Giornata della Memoria. La Repubblica Italiana, infatti, riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte e coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Proprio un testimone diretto, il professor Vittore Bocchetta, 95 anni, ha raccontato la sua esperienza.

Di origine sarda, prima della guerra insegnava a Verona ed era noto come antifascista. Vittore viene arrestato dai fascisti il 4 luglio 1944. È lui a consegnarsi spontaneamente, informato che i fascisti avevano arrestato la sua fidanzata e la madre. Interrogato e torturato per due settimane, nelle casermette di Montorio, viene poi consegnato ai tedeschi.

È deportato in Germania su un convoglio ferroviario adibito al trasporto del bestiame, insieme ad altri 435 prigionieri. Viene immatricolato nel campo di Flossenbürg. Racconta: «Erano previste 183 calorie al giorno, esattamente quelle che servono per sopravvivere 90 giorni; tre mesi di sfruttamento estenuante, fino all’estremo. “Arbeit macht frei” (“Il lavoro rende liberi”) era la scritta sul cancello. In Italia», dice Bocchetta, «non si sapeva nulla dei Lager. Anche i delatori non conoscevano il terribile destino cui sarebbero andate incontro le loro vittime. Tutti pensavamo a campi di lavoro». 21631 il suo numero; orgoglioso del triangolo rosso di prigioniero politico racconta le spoliazioni, fisiche e della personalità, l’annullamento della volontà, la fame che tutto annienta e fa dimenticare legami e solidarietà, fino all’assuefarsi perfino alla morte.

«Siamo stati condotti in un campo che ospitava circa quindicimila prigionieri…Prima di scendere queste scale che portavano alle docce, ci hanno fatto spogliare nudi, tutti… Una volta nudi e puliti, siamo stati spinti per queste scalette e siamo entrati in uno scantinato grande, dove c’erano le famose docce. Qui siamo stati ricevuti da una squadra di demoni: avevano dei pezzi di gomma che usavano come scudiscio senza nessuna ragione, senza nessuna provocazione…in un secondo capannone ci siamo rivestiti e ci siamo spogliati dell’ultima possessione che avevamo, cioè la nostra persona, il nostro nome, la nostra personalità. Abbiamo acquisito un numero, il nostro nuovo nome che veniva applicato sulla giacca con un triangolo…Il primo che abbiamo avuto era un caporale, non so se delle SS, che aveva l’uniforme militare tedesca ed era un caso patetico di pazzia. Ci ha torturato per una ventina di giorni in una baracca chiamata quarantena…questo forsennato non ci dava la possibilità di dormire……quando andavamo a fare i nostri bisogni dovevamo scavalcare o camminare sui corpi dei compagni lasciati morire a terra. Ci siamo abituati in fretta all’idea della morte, vedendo cadere a terra di stenti chi era entrato nel campo tre mesi prima di noi».

Il suo racconto è fatto anche di persone straordinarie: Teresio Olivelli, brillante intellettuale fascista passato alla Resistenza e deportato, umanissimo capo-blocco ucciso per la sua generosità, per il quale è in corso il processo di beatificazione del quale Bocchetta è testimone; il responsabile dell’infermeria, che con un termometro gli consente di fingere una febbre che gli farà passare al riparo i mesi più duri dell’inverno. Dopo la “marcia della morte”, la rocambolesca fuga, il campo di prigionia inglese, sceglie di non seguire gli altri prigionieri a Londra, ed è una scelta salvifica, perché l’aereo sul quale avrebbe dovuto viaggiare precipita nella Manica. Si accascia davanti ad un campo di prigionieri alleati, ormai incustodito; qui viene curato e nutrito. Rientra in Italia nel giugno del 1945. Le speranze di chi come lui aveva lottato per la libertà e la giustizia vengono infrante. La politica dei partiti gli rimprovera la sua scelta di restare indipendente. Decide di andare in esilio dopo essere stato lui stesso picchiato, insultato ed emarginato. Finisce in Argentina. Non potendo far valere la sua laurea lavora come ceramista e si scopre artista. Non tollerando il regime Peronista si trasferisce in Venezuela. Dopo il colpo di stato fugge negli Usa, a Chicago. Rientra in Italia solo nel 1991.

«Non li perdono, ma non credo nella vendetta. Esistono ancora uomini che come i nazisti considerano le persone cose da usare o eliminare a seconda del proprio interesse od ideologia. Io sono qui a testimoniare a voi la nostra storia, perché il ricordo di quella tragedia eviti che si ripeta».

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